La scuola è iniziata. Il Ministro dell’Istruzione ha parlato di grandi riforme, come sempre accade quando il Governo si è insediato da poco tempo al potere e vuole lasciare la propria impronta. Ho già i brividi… Chissà cosa cambierà realmente?? La prima novità è l’intenzione di valutare gli insegnanti: mi riservo di sciogliere la prognosi su un tema così complesso e delicato quando avrò capito meglio l’argomento e le proposte concrete.
A proposito di riforme e valutazioni, ho letto recentemente che la Francia ha deciso di eliminare il più possibile graduatorie e giudizi negativi.
La motivazione? Sarebbero controproducenti: demoralizzano, deprimono i ragazzi e, forse per questo – dicono – la République è crollata in tutte le classifiche europee dell’istruzione. Nello specifico la Francia ha perso posizioni nella classifica Pisa dell’Ocse (un progetto iniziato nel 2000 per la valutazione internazionale degli allievi) e un quinto degli alunni francesi che arrivano in prima media non padroneggiano l’ortografia. Più di metà degli alunni (57%) è stato bocciato almeno una volta e ogni anno 130.000 ragazzi abbandonano il sistema scolastico, senza diploma né altri titoli di formazione.
In Francia i voti si calcolano su un massimo di 20, ma anche la sufficienza (10) è considerata un brutto voto, mentre chi ottiene 15 o 16 viene spesso poco valorizzato. “Dobbiamo abbandonare l’ideologia del voto“, dice Benoit Hamon, il titolare del dicastero. Molti studi avrebbero dimostrato che i giudizi costruttivi sono più utili che un numero in pagella che non riesce a “raccontare bene” chi è lo studente e che, alla lunga, frustra le sue aspirazioni e i suoi sogni.
La colpa della bassa posizione in graduatoria sarebbe dunque del metodo di valutazione, troppo competitivo e crudele, e che dunque, andrà cambiato profondamente.
Gli esperti – come sempre – si dividono e i pareri si sprecano. Sappiamo da tempo che per ingigantire i problemi è sufficiente amplificarne i contorni e sminuirne i contenuti; prima di prendere decisioni così drastiche è sempre necessario meditare a fondo: cosa vuole dire innanzitutto “deprimere” gli studenti?? La vera preoccupazione è la classifica o il benessere dei ragazzi?? Mah…
Mi viene in mente, per contrasto, il Giappone, che da sempre svetta in cima alle classifiche delle migliori scuole al Mondo (un diplomato giapponese, si dice, ha la preparazione di un laureato italiano!) e che ha un sistema scolastico diametralmente opposto a quello francese.
Una caratteristica importante del sistema scolastico giapponese sono gli esami di ammissione, obbligatori ad ogni grado per entrare negli istituti privati: l’accesso alle scuole pubbliche è aperto, ma il loro livello qualitativo è estremamente basso e i diplomi che vi si conseguono non sono spendibili sul mercato del lavoro, per cui la quasi totalità delle famiglie giapponesi cerca di mandare i propri figli alle scuole private. Anche l’accesso alle università è regolato da esami di ammissione. Tali esami, soprattutto quello per l’ammissione all’università, sono estremamente difficili e non possono essere affrontati con una preparazione generica, e per questo la maggior parte degli studenti giapponesi, al termine della giornata scolastica (che inizia alle 08.50 e si prolunga sino alle 16.00), si recano ai corsi di ripetizioni integrative (a pagamento), che solitamente iniziano alle 17.00 e possono durare sino alle 23.30 di sera. Questa mole di studio viene giustificata dalla circostanza che ancora oggi il sistema lavorativo giapponese offre posti quasi sicuri ai laureati, e garantisce l’occupazione a vita. Per questa ragione ottenere un diploma o una Laurea con ottimi voti costituisce un obiettivo fondamentale che giustifica le ingenti spese e i sacrifici delle famiglie giapponesi per l’educazione dei figli.
Le scuole giapponesi sono inoltre note per il loro rigore, in quanto la severità dell’istituto è considerata come nota di merito e aggiunge valore al diploma conseguito. L’osservanza dei regolamenti scolastici (che cambiano da istituto a istituto) è d’obbligo e le pene sono molto severe. I regolamenti sono puntigliosi, arrivano a precisare anche i dettagli più insignificanti delle uniformi scolastiche. Nel caso si venisse bocciati o sospesi per gravi episodi si è costretti a cambiare scuola e trovarne un’altra, e ciò può influire negativamente sul proprio curriculum; infatti anche nei colloqui di lavoro viene data molta importanza alla scuola frequentata e al rendimento avuto, perché un buon studente viene considerato un buon lavoratore. Il rigore con cui gli studenti giapponesi sono allevati inizia sin dall’asilo prosegue per tutta la durata della scuola dell’obbligo, e all’università.
Un’altra peculiarità del sistema scolastico giapponese è la forte competitività tra gli studenti. In Giappone infatti le graduatorie con i voti degli esami periodici o semplicemente le medie scolastiche di fine periodo vengono pubblicamente rese note dando a chiunque la possibilità di sapere i voti degli altri, e consentendo di stilare classifiche a livello locale o anche nazionale con i migliori studenti. Inoltre gli alunni con i voti più alti godono di particolari agevolazioni e hanno il privilegio di partecipare attivamente ad alcune cerimonie. Questo sistema è criticato da alcuni in quanto potrebbe creare dei problemi di relazione a causa dell’eccessivo spirito di competizione, al contrario è apprezzato da altri poiché stimola i giovani a cercare di dare sempre il massimo.
Le posizioni dei due Paesi in merito all’istruzione sembrano distanti tanto quanto la distanza geografica che li separa!
Immagino ora vorrete sapere anche la mia posizione… beh, la questione è delicata e non riesco ancora a prendere una posizione unica.
Quello della valutazione è sicuramente uno dei problemi più complessi che la scuola e il sistema della formazione in generale deve, oggi come ieri, saper affrontare.
Il sistema scolastico italiano, nello specifico, ha scarsa dimestichezza con una vera e propria “cultura della valutazione” e fa convivere più filoni di pensiero: da un lato l’ansia di andare alla ricerca di valutazioni certe e oggettive, dall’altro la convinzione che nulla sia veramente misurabile, soprattutto quando si parla di apprendimento.
In fondo, per fortuna, ormai da decenni nel nostro Paese è caduto l’uso di far indossare il copricapo infamante con le orecchie d’asino agli studenti pigri e annoiati e sono stati aboliti i ceci sui cui inginocchiarsi per fare penitenza; non sono ammesse le bacchettate sulle mani o le mortificazioni in genere, e sono stati severamente puniti – la cronaca lo testimonia – gli insegnanti rei di aver appellato i propri studenti con parole considerate “offensive” come “asino” o “lumacone”. Il peggio dunque è passato, perciò non ci resta che migliorare e progredire prendendoci tutto il tempo necessario per evitare scelte frettolose.
Anche nel giro di 30 anni, nella pratica quotidiana, sono cambiate tantissime cose: quando ero piccola io – lo so, avete già sentito dire o magari pronunciato questa frase – “l’insegnante aveva sempre ragione”, a prescindere, la sua autorità era indiscussa e indiscutibile, mentre oggi c’è molta democrazia tra le aule genitori e insegnanti si pongono spesso sullo stesso piano. Il primo punto da chiarire, forse, consisterebbe nel tentativo di equilibrare questo rapporto nel modo più sano ed utile per i ragazzi.
Potrebbe anche essere d’aiuto dare una risposta a questi quesiti: qual è l’obiettivo della valutazione? A chi serve? Serve ai bambini e ai ragazzi?, ai genitori?, o dovrebbe essere utile solo agli insegnanti?
Ci sono esperienze di scuole che hanno abolito i voti, come la scuola di Barbiana (un piccolo borgo vicino a Firenze), avviata da don Lorenzo Milani negli anni Cinquanta, una scuola unica al Mondo, che partiva da presupposti unici e originali e nelle quali era chiaro un atto d’accusa nei confronti della scuola tradizionale, definita “un ospedale che cura i sani e respinge i malati“, in quanto non si impegnava a recuperare e aiutare i ragazzi in difficoltà, mentre valorizzava quelli che già avevano un retroterra familiare positivo, esemplificando questo genere di allievi con il personaggio di “Pierino del dottore” (cioè Pierino, figlio del dottore, che sa già leggere quando arriva alle elementari).
Ricordiamo poi la recente fiction televisiva su Alberto Manzi che ha fatto conoscere anche ai più giovani il maestro di Non è mai troppo tardi (trasmissione che ha permesso a più di un milione di italiani analfabeti di imparare seguendo le sue lezioni alla TV e conseguire la licenza elementare).
Manzi fu reso famoso dalla trasmissione televisiva ma, in realtà, i suoi metodi innovativi in campo didattico lo avevano già collocato per i suoi alunni romani in una posizione di prestigio: per loro era “il Maestro”. Un “Maestro” che dalla metà degli anni ’70 in avanti condusse una battaglia personale contro i voti, con numerose conseguenze sul piano “disciplinare” per essersi rifiutato di compilare le pagelle degli allievi. Quando fu costretto a farlo, per non essere licenziato, pensò di farsi fare un timbro con la scritta “fa quel che può, quel che non può non fa”. E usò la stessa dicitura per tutti gli alunni.
In Finlandia, senza andare troppo indietro nel tempo, non si danno voti fino alla III Media e il sistema scolastico è unanimemente riconosciuto come eccellente.
Riflettere sulle esperienze passate per capire quale eredità possono averci lasciato, e gettare uno sguardo al resto del Mondo, non è inutile: è solo molto complesso.
La valutazione deve anche, innanzitutto, verificare che gli obiettivi posti inizialmente in un programma siano stati raggiunti: una buona verifica è possibile solo se gli obiettivi posti sono chiari sin dall’inizio e i risultati sono oggettivamente rilevabili. Ma quali obiettivi?? Come al solito mi ritrovo a pensare che nel nostro Paese sia necessaria una riforma che parta dalle fondamenta e che la valutazione sia solo la punta dell’iceberg.
Forse ci sono effettivamente materie scolastiche dove il voto non è la soluzione corretta: penso a materia come arte e filosofia, penso ai temi (già penalizzati dal suono della campanella che pone severi limiti alla creatività), ai disegni, la cui valutazione è troppo legata alla soggettività dell’insegnante e che comunque dovrebbero permettere libero sfogo all’espressività dell’allievo… In un’ottica di valorizzazione delle competenze – nella mia scuola ideale – dovrebbero essere ben distinte materie quali “filosofia” e “storia della filosofia”, “arte” e “storia dell’arte”, perché sono universi completamente differenti … però rinunciare semplicemente ai voti – alti o bassi che siano – non mi sembra la soluzione. Di fronte ad una generazione di adolescenti narcisisti e bambini con velleità di onnipotenza, inseriti una società che al contrario è sempre più castrante e frustrante, forse dovremmo insegnare proprio a tollerare le piccole frustrazioni quotidiane, a comprenderle, a fare tesoro dell’insegnamento che ci danno.
Una soluzione più costruttiva potrebbe essere il voto numerico, che di per sé è davvero poco “comunicativo”, affiancato sempre ad una valutazione più estesa, che evidenzi punti di forza e punti di debolezza dell’allievo e della sua performance.
Dovrebbe poi cambiare la “cultura della valutazione”: un brutto voto non è una tragedia, un bel voto non è necessariamente motivo di un premio. Ciò che intendo dire è che non tutta l’attenzione allo studio dovrebbe monopolizzarsi intorno al voto, per non creare ansie inutili e competizione. La cosa importante è che il bambino impari sin dal primo giorno di scuola che studiare è bello, gli fa bene, che gli servirà nella vita, anche se deciderà di diventare calciatore o velina. Il bambino deve essere felice.
I genitori per primi devono mutare il proprio punto di vista sui voti, affinché quelli negativi o, meglio, o non conformi alle attese (soprattutto per quei genitori che hanno grandi ambizioni, cercano nei figli “rivincite” o inconsce compensazioni) non diventino una bomba distruttiva per l’autostima dei bambini.
I docenti dovrebbero utilizzare i voti per capire quanto sono riusciti a trasmettere passione e voglia di imparare agli allievi.
Corretto complimentarsi per i successi ottenuti dai bambini, ma ponendo l’attenzione soprattutto sugli sforzi e l’impegno messi per raggiungerli, più che sui risultati; allo stesso tempo, gli eventuali brutti voti dovrebbero spronare a far meglio e non essere vissuti come una tragedia, né dall’adulto né tanto meno dal figlio, che non deve mai dubitare della stima e dell’affetto incondizionato dei suoi cari.
Cosa ne pensate voi?
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Fonte info: articolo su La Repubblica 25/06/2014