Come il vento tra i mandorli

Ho appena terminato di leggere un romanzo che mi ha emotivamente colpito – cosa che accade sempre più raramente – ed, occupandomi tra le altre cose anche di Biblio-terapia, cercando cioè di suggerire ai miei pazienti letture in grado di generare cambiamenti, piccoli o grandi che siano, ho deciso di parlarne sul blog.

La prima precisazione è che un libro, per essere terapeutico (in senso lato) non deve necessariamente essere simile alla biografia del lettore, non deve trattare di pene d’amore se il lettore sta piangendo amare lacrime per la fine di una relazione. Certo, in questi casi l’immedesimazione sarebbe più forte, ma tutti ben sappiamo che ogni storia, anche se apparentemente simile, è differente dalle altre, sono differenti le sfumature, e quindi ciò che conta è il “messaggio” che traiamo dalla lettura, le emozioni che genera in noi (che, peraltro, potrebbero non essere le stesse dichiarate dall’Autore).

La prima parola che mi è venuta in mente leggendo l’ultima pagine di “Come il vento tra i mandorli” di Michelle Cohen Corasanti è SPERANZA.. e di speranza, in questo particolare periodo storico, economico, sociale c’è sempre bisogno. La speranza mi sembra quasi diventata un bisogno essenziale, vitale, a livello individuale e collettivo, un bene per cui lottare e sacrificarsi, da coltivare e di cui prendersi cura come un fiore raro e prezioso.

Questa la trama di “Come il vento tra i mandorli” che ci trasporta in un mondo che sembra illusoriamente lontano ma che in realtà è dietro casa: siamo in Palestina, negli anni cinquanta. Sullo sfondo del conflitto arabo-israeliano, Ichmad, dodici anni, un talento non comune per la matematica e un’ammirazione sconfinata per Albert Einstein, scopre per la prima volta cosa siano la violenza e la paura. La sua famiglia viene costretta dall’esercito israeliano a trasferirsi in un misero fazzoletto di terra rallegrato soltanto da una pianta di mandorlo, unica fonte di sostentamento e ristoro.

Ma i problemi non sono finiti: quando il padre di Ichmad viene imprigionato con l’accusa di aver nascosto delle armi, spetta al primogenito prendersi cura della madre e dei fratelli. Ichmad deve trovare un lavoro, e in fretta.

Su unico conforto è l’arrampicarsi sul mandorlo, che dapprima sembra un gioco per fuggire alla realtà dei grandi ma, a poco a poco, diviene  un’importante punto di osservazione di una realtà che non cambia mai veramente e gira sempre su se stessa come una trottola. Il mandorlo è il testimone silenzioso che accompagna Ichmad lungo tutta la sua vita, ha persino un nome, Shahida.

“Mi arrampicai sul nostro mandorlo: Abbas e io l’avevamo soprannominato Shahida, testimone, perché passavamo così tanto tempo tra i suoi rami a guardare gli arabi e gli ebrei che ormai era un compagno di giochi, e si meritava un nome. L’ulivo a sinistra di Shahida era Amal, speranza, e quello a destra era  Sa’dah, felicità, felicità.”

Anno dopo anno, ingiustizia dopo ingiustizia, i suoi fratelli soccombono all’odio verso Israele, mentre Ichmad lotta per dare un senso a ciò che lo circonda e, grazie alla sua intelligenza matematica, vince una borsa di studio per l’università e, mentre la Storia fa il suo corso, riesce a emigrare negli Stati Uniti ed a cambiare il proprio tenore di vita in modo radicale. Mentre cresce capisce cosa sono l’amore e il lutto, la rabbia e il perdono. E, ormai adulto, alla fine del romanzo, riappropriandosi delle proprie radici, riesce finalmente a ricominciare a sognare.

Il libro regala emozioni, non sempre leggere, lacrime, momenti di rabbia e confusione, ha un incipit, nel primo capitolo, decisamente duro, come un pugno nello stomaco, ma le ultime pagine invece aprono il cuore, fanno sperare in un lieto fine non solo per il protagonista – nei cui occhi possiamo immaginare quelli di un qualsiasi bambino attualmente coinvolto in questa guerra dove decisamente non ci sono vittime e carnefici ma solo vittime – ma per l’umanità intera.

“Gli stivali delle sette leghe”, l’arma magica personale a disposizione di Ichmad, sono la sua passione e il suo talento per la matematica e la fisica e, non da ultima, la possibilità conquistata (nonostante le difficoltà oggettive e l’opposizione della famiglia stessa) di coltivarli in un ambiente stimolante, seppur non sempre semplice da gestire. Molto probabilmente questo libro mi ha affascinato e coinvolto così tanto perché da sempre batto su questo tasto: la necessità, per il riscatto personale di chiunque si trovi in condizioni di sofferenza, di scoprire e coltivare i propri talenti.

La cultura, la lotta all’ignoranza, sono le “armi pulite” di chi oggi cerca di dare alternative ai ragazzi delle città del nostro Paese in mano alla criminalità organizzata; investire nella scuola, darle sostegno invece di renderla sempre più debole di mezzi, è l’unica strada concreta percorribile per combattere mafia e camorra, per impedire che reclutino in modo troppo semplice ragazzini sempre più piccoli che, in un mondo di disoccupazione e senza apparente speranza, sono attratti dalla ricchezza facile. La mia scuola ideale, ormai lo sapete, è quella che regala ad ogni bambino, ed al ragazzo che diventerà, una possibilità di realizzazione personale, in qualsiasi ambito di vita abbia capacità, inclinazioni e attitudini.

Tra le altre cose – concedetemi una parentesi – penso che questo romanzo andrebbe letto nelle scuole, come complemento obbligatorio per le lezioni di storia; andrebbe letto a tutti gli insegnanti demotivati e agli alunni svogliati e menefreghisti.

Per risonanza emotiva, “Come il vento tra i mandorli” mi riporta ad un altro romanzo che ha un tema differente ma un messaggio similare,  “Tre tazze di tè”, di Greg Mortenson.

In questo caso siamo di fronte ad una biografia, forse un po’ romanzata, che racconta di come, nel 1993, lo scalatore americano Greg Mortenson, dopo un tentativo fallito di raggiungere la vetta del K2 e una difficile discesa che mette a repentaglio la sua vita, giunge nello sperduto villaggio di Korphe, nel Karakorum pakistano. Gli abitanti lo curano per sette settimane, e per sdebitarsi Greg promette loro che tornerà a costruire una scuola. “Tre tazze di tè” è la storia di quella promessa, delle difficoltà incontrate per mantenerla – in California, Greg rinuncia alla casa e vive in macchina per non sprecare i soldi dell’affitto – e della spettacolare riuscita dell’impresa: in una dozzina di anni Mortenson ha costruito non una ma cinquantacinque scuole, ha promosso in particolare l’istruzione delle bambine, da sempre escluse, e ha portato avanti la sua opera nelle zone dominate dai Talebani, anche dopo l’11 settembre e le guerre che hanno insanguinato una terra già martoriata.

Mortenson spiega che ha compreso come il successo dei talebani passa dall’analfabetismo e dall’islamizzazione scolastica e, pertanto, l’unica arma per combatterli consiste proprio nel creare scuole nuove e lavorare sull’istruzione.

Vi consiglio, qualora voleste approfondire la storia di Mortenson, di leggere l’articolo apparso su Il Foglio “A scuola di tè, malgrado i talebani” http://www.ilfoglio.it/articoli/v/113741/rubriche/a-scuola-di-t-malgrado-i-talebani.htm (12 marzo 2009, Autore Giulio Meotti) e di evitarvi tutte le polemiche e i dubbi sulla presunta veridicità di alcune vicende narrate da Mortenson. Magari qualche avventura è effettivamente un po’ esagerata e abbellita, coccola l’Ego del protagonista, ma – questo è il mio parere – “chissenefrega”: ciò che conta è il contenuto, conta ciò che è stato realizzato, la ONG da lui fondata che tuttora opera nei territori più remoti di Afghanistan, Pakistane e Tajikistan e che continua a diffondere SPERANZA.

Buona lettura!

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